Adriano Roccucci, Stalin e il patriarcato. La chiesa ortodossa e il potere sovietico 1917-1958, Einaudi, 2011, 36,00 €
In Unione Sovietica il potere comunista fece del credo
antireligioso uno dei suoi cavalli di battaglia: l'«uomo nuovo»
vagheggiato non avrebbe dovuto nutrire alcuna fede religiosa,
né essa avrebbe dovuto occupare alcun posto nella società
e nell'organizzazione dello Stato sovietico. Ma la seconda
guerra mondiale avrebbe cambiato molte cose, e Stalin avrebbe
imparato a gestire in modo molto piú sofisticato il suo rapporto con
la Chiesa ortodossa. Una storia complessa e ricca di implicazioni,
ricostruita con esattezza di dettaglio e ampio uso di fonti originali
sovietiche.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre
1943 Stalin ricevette al Cremlino
i tre metropoliti che assicuravano
il governo della Chiesa ortodossa russa.
Fu un incontro sorprendente. Il leader
sovietico nei decenni precedenti aveva
scatenato una persecuzione implacabile
nei confronti degli ecclesiastici
e dei fedeli ortodossi. I tre vescovi
erano dei sopravvissuti all'offensiva
antireligiosa consumatasi nel quarto
di secolo precedente a quel colloquio.
Nel corso di una lunga e cordiale
conversazione Stalin espresse il suo
consenso all'elezione di un patriarca
a capo della Chiesa russa. Dal 1925,
infatti, la sede patriarcale era vacante,
per il rifiuto del potere sovietico
di autorizzare la Chiesa a eleggere
un suo nuovo capo. L'8 settembre 1943
il metropolita Sergij (Stragorodskij)
fu eletto patriarca di Mosca e di tutte
le Russie.
Cosa aveva determinato questo
cambiamento della politica religiosa
sovietica? Quali erano le radici
profonde di questa nuova alleanza
tra Chiesa ortodossa e regime?
E perché Stalin aveva deciso
di far rinascere il patriarcato?
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